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È stato pubblicato il libro del vincitore del Premio Enrico Guidoni 2019:
Venezia e la casa salubre. Dai piani per la città alle abitazioni a premio (1891-1925)
di Alessandra Ferrighi
Collana Lapis Locus
2020 Ed. Steinhäuser Verlag – Wuppertal
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Dall’Introduzione:
L’epidemia colerica del 1884-85 e la conseguente legge Per il risanamento della città di Napoli hanno rappresentato una sorta di pivot nella storia urbana e dell’architettura delle città italiane, trasformate in luoghi di sperimentazione e attuazione delle nuove teorie di risanamento. Le città storiche erano viste come luoghi malsani dove si concentravano i maggiori disagi, dal sovraffollamento nelle abitazioni alla mancanza di aria e luce nelle strade; la loro configurazione non era più considerata appropriata all’evolvere delle esigenze rappresentative, abitative e produttive, né tanto meno in grado di adattarsi alle teorie igieniste che si stavano sviluppando in questi stessi anni, se non attraverso profonde trasformazioni. Le amministrazioni comunali dei principali centri urbani italiani furono innanzitutto chiamate a rispondere alla domanda di nuove case per una popolazione in continua crescita attraverso proposte progettuali. In particolare andavano trovate urgenti risposte per le diffuse aree di degrado abitativo e urbano, per le situazioni connotate da tuguri privi di acqua potabile e corrente, di latrine e sistema fognario, per gli stabili pericolanti e con murature intrise di umidità. Nei piani per le città redatti nell’ultimo quarto dell’Ottocento si ritrovano frequentemente da un lato proposte di demolizione di interi brani urbani – i cosiddetti interventi di sventramento – associate a nuove configurazioni di tracciati viari e tessuti edilizi; dall’altro ipotesi di crescita della città per addizione di nuovi quartieri da costruire seguendo le più moderne concezioni dettate dall’ingegneria sanitaria. Le nuove case, allineate sulle larghe e regolari arterie, avrebbero impresso ordine e decoro urbano a quartieri finalmente sani, luminosi, adatti alle esigenze di rappresentatività delle classi sociali emergenti, dall’alta borghesia imprenditoriale e delle professioni alla medio-piccola borghesia impiegatizia. In un quadro nazionale che risulta abbastanza omogeneo negli interventi delineati nei piani, nelle terminologie e finanche nelle retoriche utilizzate nelle relazioni, Venezia rappresenta una vera eccezione. A differenza delle altre città, non disponeva di aree per le nuove espansioni; in aquis fundata, le acque lagunari rappresentavano insieme luogo fisico e simbolico in cui si concentravano limiti e valori insediativi, costruttivi e, se vogliamo, estetici della Venetiarum urbis. Città dalla storia millenaria, ammirata e descritta dai viaggiatori di tutto il mondo, considerata un gioiello d’architettura, Venezia rappresenta un unicum da preservare nei suoi caratteri urbani complessivi così come nel pittoresco rappresentato dai muri scrostati dalla salsedine, come più volte hanno scritto John Ruskin e Camillo Boito. Non che i tentativi di riorganizzare il denso e labirintico tessuto urbano, per creare nuove zone su cui riedificare, siano stati del tutto assenti a Venezia in quegli stessi anni, tutt’altro. Solo che ogni volta che si pensava di metter mano alla trasformazione di parti della città – o di suoi singoli monumenti e complessi edilizi – si levavano tante e tali voci di protesta da impedirne o rallentarne di fatto l’esecuzione. Se a Torino o a Firenze si stavano approvando e mettendo in atto i Piani di trasformazione, grazie alla suddetta legge per Napoli, a Venezia non ci si riesce. Nemmeno il tentativo di formare dei piani limitati e parziali, disegnati in zone specifiche della città, consentirà all’Amministrazione di procedere. Ci vorranno più di dieci anni per ottenere l’approvazione del Piano di risanamento impedendo di fatto di creare quelle occasioni di ripensamento della città e di offrire nuove forme di residenzialità a una popolazione in continua crescita.[+]
L’iniziativa nasce come controproposta alla mancata approvazione da parte degli organi governativi dei Piani di risanamento, piani da leggere come primi tentativi redatti per correggere i mali di una città da rammendare.
Le matrici su cui si cominceranno a stendere i progetti per il ‘rinnovamento’ della città riguarderanno in particolare la creazione di nuove arterie di comunicazione, in modo da offrire luce e aria alle calli, demolendo parti attraverso una lunga traversia. In particolare, ’approvazione di quest’ultimo portò alla famosa querelle tra chi voleva ‘conservare’ la città e vedeva in azione il solo piccone demolitore che l’avrebbe sfigurata e chi spingeva per rendere sana la città. Le continue revisioni, sospensioni e bocciature da parte degli organi superiori comportarono la nomina di una Commissione ministeriale e municipale, presieduta da Camillo Boito, per meglio valutare i contenuti dei piani. Le conclusioni furono divergenti e ricalcavano le vecchie polemiche: salvaguardare il carattere pittoresco della città lagunare o sanificarla dai suoi mali. Le uniche idee condivise erano: manutenere i rii con il loro escavo, migliorare il sistema fognario, proibire le abitazioni nei piani terreni, favorire la costruzione di nuove abitazioni e risanare quelle esistenti. Rimandando di fatto le questioni progettuali sulla città. Proprio a partire dall’indicazione di realizzare nuove unità abitative o di adeguare quelle esistenti, nell’attesa che il Piano di risanamento per Venezia venisse approvato, si concretizzò l’idea del premio decennale. Dopo un’attenta analisi sull’andamento della crescita della popolazione in città, s’incoraggiò l’attività edilizia lasciata all’iniziativa dei privati. La Giunta Selvatico, infatti, concluse che l’unico modo per accrescere il numero delle case sane era quello di far costruire ai privati su aree libere o di sopraelevare vecchi edifici esistenti di loro proprietà. Favorendo la speculazione privata s’incoraggiarono nuovi interventi attraverso un premio da dare alle nuove case, proporzionale al volume costruito, finalizzando gli interventi al miglioramento delle dotazioni delle abitazioni e destinandole all’affitto per le classi meno abbienti. Si offrì l’occasione di intervenire nel corpo della città, seppure in modo puntiforme – a pelle di leopardo –, all’interno del territorio comunale dove i privati possedevano terreni, case malsane da demolire e ricostruire o da sopraelevare.
Si sperava che attraverso una certa forma di spontaneità avvenisse una sostituzione graduale del patrimonio residenziale grazie agli incentivi.
Gli interventi furono definiti Case a premio perché i privati, una volta concluso l’intervento e ottenuta l’abitabilità, potevano chiedere di ottenere, in dieci anni, la restituzione di quota parte dell’investimento sostenuto tramite convenzione stipulata con l’Amministrazione municipale. La costruzione di nuove case prese avvio l’11 settembre 1891 e si prolungò, contro ogni aspettativa iniziale, con diverse proroghe fino al 31 dicembre 1912. L’intervento fu ripreso negli anni dal 1922 al 1925 ottenendo così una buona risposta da parte dei privati e del numero delle abitazioni rese disponibili grazie a quel tipo di finanziamento. Gli interventi in totale restituirono più di duemila e cinquecento nuovi appartamenti dotati di impianti che rispondevano alle norme igienico-sanitarie imposte dai regolamenti e rese necessarie al vivere di una città che voleva essere ‘moderna’.
I progetti delle Case premio non sono mai stati studiati nel loro insieme. Se visti come un unicum offrono uno spaccato di come a Venezia si sia dato spazio alla residenzialità a basso costo con interventi da parte dei privati grazie al finanziamento pubblico. Le Case a premio hanno contribuito a modificare puntualmente piccole porzioni di città con due modalità differenti.
Attraverso interventi ‘mimetici’ legati alla tradizione di ‘costruire nel costruito’ a Venezia e l’edificazione di nuovi volumi che hanno comportato quella rottura o alterazione nel fitto tessuto edilizio caratteristico della città lagunare. I cento professionisti che sono intervenuti nel lungo periodo si sono adeguati al contesto ‘tradizionalista’. Il linguaggio dell’architettura adottato non è riconducibile a uno stile in particolare, ma a una tradizione di materiali e forme. La Commissione all’ornato ha negli anni progressivamente imposto quale configurazione dare alle facciate, governando di fatto quello che sarebbe stato l’aspetto dei luoghi urbani su cui si sarebbero affacciate le Case a premio.
Di fatto gli interventi puntuali ridisegnano l’immagine di alcune aree della città e ne ridefiniscono per parti la struttura, consegnandoci molta della Venezia che oggi conosciamo. Il libro indaga le ragioni attraverso cui si pervenne e i modi attraverso cui si realizzarono questi interventi di sostituzione e trasformazione dell’ambiente urbano, in rapporto al quadro politico, sociale e culturale di quegli anni.